Trump ha vinto in maniera nettissima le elezioni americane del 5 novembre. Ma cosa significa questo per l’Unione europea? L'ultima stoccata di Trump contro il Vecchio Continente risale ad appena due giorni prima del voto statunitense: "L'Europa sembra così carina, ma ci deruba".

Il punto, per Trump, è sempre quello economico: l'Europa non paga abbastanza negli scambi commerciali, né per la difesa. Tutti quei bei paesini europei che si uniscono... . Ma non prendono le nostre auto. Non prendono i nostri prodotti agricoli. Vendono milioni e milioni di auto negli Stati Uniti. No, no, no, dovranno pagare un prezzo elevato", ha detto rilanciando il suo 'Trump reciprocal trade act' che prevede di imporre una tariffa del 10% sulle importazioni da tutti i Paesi e dazi del 60% sulle importazioni dalla Cina. Del resto - aveva già accusato una settimana prima - ai suoi occhi l'Ue è una "mini Cina, non poi così mini."

Oltre alla questione economica, c’è poi quella legata alla difesa: l'Ue si "approfitta di noi" negli scambi commerciali e "noi li difendiamo con la Nato: dovrebbe pagare quanto noi per l'Ucraina".

In questo quadro, il ritorno di Trump alla Casa Bianca, che nei fatti avverrà a gennaio 2025, è stato accolto con reazioni differenti dai leader europei.    

Da tutte le cancellerie europee, nel giro di una manciata di ore, sono arrivate le congratulazioni per il nuovo alleato americano nel segno della "storica" amicizia transatlantica. Emmanuel Macron si è detto pronto a lavorare con Trump "con rispetto e ambizione"

Donald Trump del resto sarà il convitato di pietra del duplice vertice di Budapest: prima la riunione della Comunità Politica europea, poi il Consiglio europeo informale tutto incentrato sui report di Mario Draghi, che illustrerà il suo lavoro.  

L’Ue comunque sembra  pronta a riorganizzarsi. Subito dopo la consacrazione di Trump, Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno parlato di uno "stretto coordinamento" e di un lavoro per "un'Europa forte e coesa".  

Otto anni fa, gli europei avevano reagito allo shock della prima elezione di Trump con un misto di attendismo e di opportunismo, in parte evidenziando le affinità elettive fra governi di simile ispirazione politica e in parte cercando di blandire l’ego del nuovo presidente.

Messi di fronte alla sua retorica e, soprattutto, al rischio che si traducesse in decisioni pericolose, quegli stessi europei avevano poi messo in campo una serie di risposte che, almeno sul versante della difesa, miravano implicitamente a preparare un ‘piano B’  nell’eventualità  di un possibile ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’Alleanza Atlantica.  

Otto anni dopo, la storia potrebbe ripetersi, ma non necessariamente negli stessi termini. Molti analisti ritengono, ad esempio, che l’amministrazione Trump 2.0 sarà molto più determinata nel perseguire la propria agenda, e molto meno condizionata dal personale politico mainstream che aveva contribuito a contenere la portata potenzialmente destabilizzante degli istinti di Trump. Il contesto internazionale, inoltre, è molto più teso ed incerto rispetto al periodo 2016-20, con due guerre in corso fra Europa e Medio Oriente e una contestazione crescente dell’ordine scaturito dalla fine della Guerra Fredda.

Infine, l’Europa del 2025 sarà probabilmente meno compatta nel resistere alla pressione di Trump: non solo infatti il centro politico del continente appare diviso e indebolito, ma le forze che in Europa rivendicano affinità con la coalizione che ha riportato al potere Trump sono oggi più forti, e in alcuni casi perfino al governo; solo una piccola minoranza sembra augurarsi che il ritorno di Trump possa costituire uno shock salutare per l’Europa, spingendola ad investire una volta per tutte sulla propria “autonomia strategica”.

La prospettiva di un’Europa forse meno impreparata ma certo più divisa di fronte a Trump è dunque reale, e se ne avrà probabilmente un primo assaggio già al vertice informale UE previsto per l’8 novembre prossimo proprio a Budapest per discutere di competitività e del Rapporto Draghi.

Per quanto riguarda la NATO, appare al momento poco probabile che Trump voglia dare subito seguito alle dichiarazioni fatte all’inizio della campagna, con la minaccia di ritirare la protezione americana agli alleati che non avessero contribuito in modo adeguato alla propria difesa.  

Resta inoltre da vedere quali iniziative Trump intenderà prendere per dare seguito alla sua promessa di porre fine “in 24 ore” alla guerra russo-ucraina, che si tratti di sospendere gli aiuti a Kyiv, di negoziare direttamente con Putin, o di togliere unilateralmente le sanzioni americane alla Russia – tutte opzioni che, di nuovo, hanno il potenziale di dividere gli europei e di intaccare la compattezza e la stessa credibilità dell’“Occidente”.

In Medio Oriente, teatro di fatto di una guerra regionale, Trump cercherà di chiudere l’escalation in corso e rilanciare la cornice degli Accordi di Abramo, mentre in Asia la strategia resterà improntata al contenimento della Cina e al rafforzamento dei legami con gli alleati USA nella regione. Sul fronte commerciale, si prospettano nuove frizioni con Pechino e l’UE, con un possibile ritorno a politiche protezionistiche fatte di dazi e tariffe. Come influiranno queste ultime sul rapporto con l’Unione Europea? E quali saranno le conseguenze globali della strategia di contenimento della Cina? Trump rilancerà gli Accordi di Abramo senza alimentare ulteriori tensioni in Medio Oriente?

Quello che è emerso in campagna elettorale potrebbe non corrispondere alla realtà “mediata” del post-elezione. I presidenti degli Stati Uniti governano all’interno di un sistema istituzionalizzato di check and balances e la capacità di Trump di portare avanti le politiche più controverse si misurerà con il sostegno reale di cui i repubblicani godranno nel Congresso.  

Per capire cosa ci aspetta basta vedere chi sono gli interlocutori privilegiati di Trump. All’interno dell’Unione europea il prescelto è il primo ministro ungherese Viktor Orbán, capofila degli euroscettici e leader del fan club di Vladimir Putin nel vecchio continente. Citato come esempio da Trump nei suoi raduni, Orbán è vicino alle figure dell’estrema destra che hanno plasmato il programma del candidato repubblicano.

L’Unione europea rischia dunque di risultare la grande perdente delle elezioni americane, quanto meno per come la conosciamo. Il modo in cui Trump gestirà la guerra in Ucraina (che ha promesso, ricordiamolo, di “risolvere in 24 ore”) detterà il corso degli eventi. Se il nuovo presidente deciderà di staccare la spina agli aiuti americani per Kiev o di spingere Volodymir Zelensky a negoziare in posizione di debolezza con Mosca, a pagarne il prezzo sarà tutta l’Europa.

Una Europa che dovrebbe cominciare ad imparare a camminare da sola e con le sue sole forze e che dovrebbe fare di tutto perché gli Stati Uniti d’Europa non siano soltanto una parola ma una realtà politica, militare e sociale.

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