Tra Pescara e Ancona, domenica, una sfida tra nobili decadute, sono lontani i tempi in cui il derby dell'Adriatico era un appuntamento abituale in Serie B (una volta anche in A, nel 1992-‘93). Ora Pescara e Ancona sono malinconicamente in C,  e i biancazzurri sperano di riaprire la corsa al quinto posto, o perlomeno di blindare il sesto, i dorici addirittura dovranno disputare la gara della vita per evitare di giocarsi la permanenza in terza serie ai play out. Comunque sia, la partita resta affascinante e la forte rivalità tra le due tifoserie aumenta l'interesse.

Quello che mi sorprende è la facilità con cui i cronisti locali si destreggiano per giustificare che, dopo essere partiti al suono delle fanfare dicendo che la squadra formata dal Ferguson collinare poteva ambire alla promozione, hanno ripiegato, strada facendo, per obiettivi sempre più ridotti.

Ora si punta al quinto posto o forse al sesto... suvvia siate seri e dite ai tifosi pescaresi che continuano la loro protesta, come e perché i conti fatti in precedenza dal Ferguson collinare sono tutti scaduti nel vuoto e nell’anonimato di un campionato che solo una culata megagalattica potrebbe salvare.

Insomma, dalla possibile lotta per la promozione, ci ritroviamo a doverci accontentare di un finale play off partendo dalla quinta o sesta posizione e nessuno che punti il dito verso chi ha fatto sprofondare il Pescara in questa posizione, anzi i lecchini reggitori di microfono, esortano i tifosi ad accontentarsi perché, comunque, il demiurgo iscrive ogni anno la società nel campionato di riferimento.

Insomma vogliono prendere per i fondelli tutti facendo credere che il normalissimo impegno del pagamento delle tasse di iscrizione sia un fattore eccezionale e non il dovuto normale per chi vuole fare attività calcistica.

Bisogna accontentarsi di ciò che passa il convento.

Carlo Goldoni, commediografo del '700, all'interno de "La putta onorata" scriveva così: “Chi se contenta, gode.

Chi si accontenta gode” è la filosofia dei finti soddisfatti e degli infelici camuffati. È più facile accontentarsi che andare fino in fondo per realizzarsi.

Chi si accontenta gode, ma accontentarsi non vuol dire sedersi. Il contesto non aiuta, perché etichetta impietosamente chi non pretende sempre il massimo. «Sono le aspettative sociali e una cultura improntata alla competizione che tendono a giudicare in senso negativo chi vive accontentandosi.

Viviamo ormai in una società dove la velocità, spesso a discapito della qualità, è diventata un valore aggiunto, non stupisce che molte scelte vengano fatte sulla scia del momento, per assecondare un impulso, neanche troppo sentito, ma in linea con bisogni temporanei senza alcun seguito.

Si finisce quindi con non avere più dimestichezza nell’ascolto di se stessi, seguendo opinioni altrui, mode e tendenze, senza saper più scegliere realmente, basandosi su osservazioni sfuggenti e considerazioni sommarie.

La superficialità domina i rapporti, sempre più messi a dura prova da continui stimoli che non riescono a soddisfare, in un consumismo dilagante che ha assorbito tutto. 

Un tempo primeggiava il detto “chi si accontenta gode”, indicando la possibilità di godere di ciò che si ha nel presente, mentre oggi nel “qui e ora” in pochi riescono ad esserci, sempre protesi verso l’illusione che la realtà sia diversa da come appare. 

Accontentarsi però è diventato un atteggiamento comune, proprio perché non si ascoltano le proprie esigenze o perché un cambiamento  comporterebbe maggiori responsabilità, per cui è più semplice prendere le cose come vanno e se vanno male far finta che non sia così.

Mentre da bambini il gioco simbolico del “far finta” aiuta lo sviluppo cognitivo, sociale e affettivo, da adulti contribuisce al blocco delle proprie risorse e della crescita personale.

Si smette di adoperarsi per un cambiamento e si finisce con l’accontentarsi della propria situazione anche quando non se n’è realmente soddisfatti.

In questi e tanti casi di godimento ce n’è veramente poco!

E allora? Meglio non accontentarsi e continuare a cercare e a sperare nella perfezione?

Neanche questo atteggiamento porterebbe a una reale soddisfazione, bisogna imparare ad ascoltare le proprie emozioni, distinguendo le paure che bloccano dal prendere decisioni, le ansie che portano ad accelerarle, per tornare ad avvicinarsi a ciò che si vuole per sé e per la propria vita agendo con la mente e con i cuore rivolti al “benessere” della società che si presiede e non solo al tesoretto personale. 

  

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